Diritto di abitazione tra convivenza more uxorio e legge Cirinnà, alla luce della recente giurisprudenza della Cassazione

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In ragione dell’ampio ed organico intervento normativo, rappresentato dalla legge cd. Cirinnà, n. 76/2016, risulta necessario distinguere – affinché si possa individuare la spettanza in capo al convivente superstite del diritto di abitazione nell’appartamento destinato alla vita comune, in seguito al decesso del convivente proprietario dell’immobile – tra l’istituto della convivenza di fatto, introdotto dal citato testo normativo, e quello antecedente della convivenza “more uxorio”.

Premettendo una breve analisi dell’impianto normativo citato, emerge come lo stesso risulti prevalentemente improntato alla regolamentazione della inedita fattispecie delle “unioni civili tra persone dello stesso sesso”, rispetto alle quali il legislatore ha introdotto una sostanziale equiparazione al regime giuridico previsto per il matrimonio dalla legge 151/1975, salve le seguenti marginali differenze:

  • alla struttura del matrimonio quale negozio giuridico trilatero (intercorrente tra gli sposi e l’ufficiale di stato civile) si contrappone la struttura dell’unione civile quale negozio bilaterale (in quanto in tal caso il ruolo dell’ufficiale di stato civile si esaurisce nella mera ricezione dell’atto);
  • il mancato richiamo in ordine alle unioni civili delle norme codicistiche relative al rapporto tra genitori e figli;
  • la mancata previsione per le unioni civili dell’obbligo di fedeltà tra le parti;
  • la possibilità di scioglimento delle unioni civili solo mediante divorzio e non mediante separazione.

Alla descritta equiparazione di fatto tra il regime del matrimonio e quello instaurato mediante unione civile, non corrispondono analoghe previsioni della legge 76/2016 in ordine al diverso istituto della convivenza di fatto.

Con riferimento all’istituto della convivenza di fatto, infatti, il legislatore del 2016 ha introdotto molteplici limitazioni rispetto al regime normativo previgente, in cui la convivenza veniva sostanzialmente rimessa alla autonomia negoziale delle parti, con la previsione di oneri formali particolarmente stringenti – inclusa l’impossibilità di apporre all’atto costitutivo termini e condizioni, alla stregua di quanto previsto per il matrimonio –  giustificati dalla possibilità di instaurare un regime patrimoniale di comunione di beni in virtù del connesso regime di pubblicità adeguata.

Pertanto, il testo legislativo in esame, in ordine all’istituto della convivenza di fatto tra “persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile” (art. 1 co. 36 l. 76/2016), prevede una specifica disciplina in punto di regime patrimoniale, la quale dispone espressamente la possibilità di instaurare comunione legale dei beni (art. 1 co. 53 lett. c) l. 76/2016), a cui fanno da contrappeso i maggiori vincoli di forma richiesti dal comma 51 art. 1 l. 76/2016, che impone la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata per il contratto di convivenza.

Espressa disciplina della legge in esame emerge, inoltre, anche con riguardo alle conseguenze del decesso del convivente di fatto proprietario della abitazione destinata alla vita comune: l’art. 1 co. 42 l. 76/2016 dispone espressamente che, salvo quanto disposto dall’art 337 sexies cc, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per un periodo non superiore ai 5 anni, che va modulato secondo una serie di variabili enunciate dalla norma, dalla durata della convivenza alla presenza di figli minori o disabili.

Così descritto l’impianto normativo della legge 76/2016, occorre precisare come la relativa disciplina risulti applicabile esclusivamente a quei rapporti di convivenza che rispettino i requisiti di forma prescritti per il contratto di convivenza di cui ai commi 50 e 51 dell’art. 1 l. 76/2016, coerentemente con la pretesa di esaustività del citato testo normativo in ordine al novero delle convivenze di fatto.

Di conseguenza, l’intero corpus normativo de quo, e segnatamente, ai fini della presente trattazione, l’art. 1 co. 42 l. 76/2016, non risulta applicabile a quelle ipotesi di convivenza more uxorio che non rispettino i requisiti di forma di cui alla citata legge, o addirittura antecedenti alla entrata in vigore della stessa.

In base a tali considerazioni, quind, risulta necessario distinguere l’istituto della convivenza di fatto, che ricorre in presenza dei requisiti prescritti dalla legge 76/2016, e che beneficia della relativa disciplina, dalla convivenza more uxorio, che fuoriesce dalla sfera applicativa della legge 76/2016, e che risulta piuttosto riconducibile al novero delle obbligazioni naturali, di cui all’art. 2034 c.c.

A più riprese, infatti, la Suprema Corte, prima dell’intervento del testo normativo esaminato, ha incluso le unioni di fatto, o convivenze more uxorio, nel quadro delle obbligazioni naturali, qualificandole come formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale, e che assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost, risultando caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale  (cfr. Cass sez. I 22 gennaio 2014 n. 1277; Cass sez. I 25 gennaio 2016 n. 1266).

Da tale inquadramento, dunque, consegue che le attribuzioni patrimoniali effettuate a favore del convivente more uxorio nel corso del rapporto configurano l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cc.

Pertanto – alla luce della descritta natura della convivenza more uxorio quale formazione sociale idonea a dare vita ad un vero e proprio consorzio familiare – sulla casa di abitazione comune, in  capo al convivente more uxorio la disciplina codicistica non riconosce una mero potere di fatto fondato su ragioni di ospitalità, bensì una detenzione qualificata dell’immobile, di proprietà dell’altro convivente. Tale detenzione qualificata del convivente more uxorio, dunque, risulta esercitabile ed opponibile ai terzi finchè permanga il titolo da cui deriva, ossia finchè perduri la convivenza more uxorio: venuto meno il titolo, per cessazione volontaria della convivenza, o in seguito al decesso del convivente proprietario dell’immobile, viene meno anche la detenzione qualificata sull’immobile stesso.

Ciò risulta confermato anche in sede giurisprudenziale, come emerge dalla recente sentenza n. 10377, pronunciata dalla Suprema Corte in data 27 aprile 2017, secondo la quale, al momento del decesso del proprietario dell’immobile, il convivente more uxorio di quest’ultimo non può restare ad oltranza nell’appartamento in cui ha vissuto con il convivente: il diritto a restare nella abitazione non può estendersi oltre il tempo ragionevole per cercare una nuova sistemazione.

Dott. Luigi Tafuto

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